Da “Il ricettario di Dìa”
Per questo Natale mi piace proporvi un estratto del libro “Il Ricettario di Dìa”, che ho da poco finito e presto andrà in stampa. Questo paragrafo è la rievocazione dei Natali trascorsi a Ragusa Ibla, dove le antiche ricette di mia nonna diventarono emblematiche per tutti noi, oltre che di intensi sapori e ricercati profumi, di una leggera e sentita armonia che coinvolgeva la famiglia e coloro che in quei giorni erano con noi.
Natale e Vigilia
La zia Margherita arrivò quasi puntuale, salutò Dìa e Don Peppino e prese posto al lungo tavolo. Portava la sua folta treccia grigia avvolta sul capo, a ridosso della fronte, segnata appena da leggera rughe di pensiero, le labbra sottili e ironiche. Si sedette alla destra di Dìa , di cui era cugina in primo grado, figlie di sorelle.
D’inverno si divideva tra la città e la campagna, vicino al bosco di Cicogni, a pochi chilometri da Raffino. Portava con sé l’ intenso profumo del gelsomino che cresceva rigoglioso e dirompente ai lati del portone d’ingresso della casa. L’incarnato olivastro era la giusta cornice per due occhi castani e taglienti, che scrutavano ammiccando, pieni d’ironia.
Accanto a lei mia madre, con cui condivideva una sconcertante schiettezza. Questa festa ci radunava tutti con obbligo, le altre ricorrenze prevedevano qualche deroga, senza però mai eccedere. La famiglia era non solo la nostra, ma quella degli altri. Una festa sentita chiusa nel proprio ambito, entro limiti consolidati dal sangue e dalle consuetudini, Dìa la voleva invece di tutti. Fu una delle mie prime percezioni forti che esisteva altro e andava conosciuto.
Associavo quest’ampiezza allo sguardo lanciato fuori dalla vetrata sulla valle di S. Leonardo e sul soffitto. Dopo anni sarei riuscita a parlare di universalità, avrei saputo di non esistere solo relativamente alle nostre esperienze e percezioni, ma in quei pranzi di Natale sentivo soltanto di esserci e non di dover dare il meglio di me stessa, perché era già tutto lì quello che cercavo.
Lei aveva preparato con estrema cura il table à tè di dolci, alcuni esposti sotto le campane di vetro, altri in alzate. C’era quasi tutto, mucatoli, mostazzola, ‘mpanatagghi, fiocchi di neve, dolci savoia, biscotti scauriati, buccellati e i torroni di mandorle, di sesamo, tutti al miele di carrubo, i fichi secchi di Raffino. Mostarde a losanga e cotognate a mattonelle, ognuna avvolta nella sua caramella di carta.
Le torte venivano a parte a sorpresa , una o due per giorno. Quel Natale in particolare toccò alla torta pasqualina e a una tortiera di ricotta al limone e cannella. La grande tavola, apparecchiata in bianco, non aveva alcuna nota di colore rosso, se non per gli occhi dei puttini goduriosi e serafici che adornavano i lembi della tovaglia, tenendosi per mano quasi fosse una ghirlanda. Dìa l’aveva ricamato pensando alle ruote nordiche beneaugurali.
Per il resto, la trasparenza del cristallo dei bicchieri e l’argento lucidissimo delle posate impreziosivano il lindore e la semplicità del resto. La cena della vigilia, contrassegnata da piatti di carne di maiale e di pesce, era il giusto epilogo di una settimana intensa di lavoro, dove la fatica si era sempre alternata a momenti d’estasi goduriose.
Il maiale, allevato da Giovanni in masseria, era stato utilizzato per la sugna e le altre svariate preparazioni, tutte esposte per l’intera settimana sulla grande tavola: costate ripiene, salami e suppressata, il macinato per farcire i ravioli, ragù e altro, la gelatina, la galantina con i pistacchi. Solo perché necessario per la sussistenza delle famiglie, il maiale rientrava così nel canone della Cena di magro della notte di Natale.
Come prima portata Concetta esibiva sempre la liatina, il filo rosso dell’intero percorso. A seguire la caponata d’inverno, quella volta farcita con uno strato di tunnina. I due piatti, a destra e sinistra, sarebbero rimasti per tutto il pranzo. Poi baccalà e anguille fritti, serviti con olive nere, capperi e cipolline selvatiche in agrodolce. I minuti di attesa erano un preambolo necessario a ù sfuogghiu. Apparteneva alla grande famiglia dei pastizzi, ma era sicuramente il più bello.
Una grande ruota di frolla, sopra e sotto, con ripieno di ricotta e salsiccia, aromatizzati con timo selvatico, chiodi di garofano e cannella. A vederlo sembrava coperto da una corolla formata da un filo lungo di pastafrolla, abilmente attorcigliato e poi lucidato con battuto d’uovo. Altra pausa e, a finire, un trionfo di bianco mangiare e gelatina di cannella, abilmente disposti al centro tavola perché tutti li vedessero compiaciuti ed estatici.
L’indomani, il giorno di Natale, era giocato tutto su piatti a base di maiale e sui pastizzi. Ma ogni singola parte del cerimoniale si svolgeva solo dopo la S. Messa delle ore 12 alla Parrocchia di S. Tommaso e la sosta davanti al presepe. Ite, Missa est. Per primo ravioli, ripieni di ricotta, un pizzico di zucchero e cannella, e cavati.
Il ragù di maiale, polpa e cotenna, era il sugo di accompagnamento del primo piatto, ma essendo sempre servito a parte si poteva scegliere anche se ravioli e cavati gustarli in bianco. Era profumatissimo, arricchito di cannella, chiodi di garofano e pepe nero. Le spezie si sentivano forti nell’aria fino a stordire i presenti e a far immaginare a ciascuno paesi e storie lontane.
Quasi contemporaneamente Concetta portava i pastizzieddi di carne, ù pastizzu di ciuriddi, quello di topinambur e spinaci, con le note agrodolci della passulina. Le note di pesce quel giorno vennero date da una cipollata di tunnina , da ù pastizzu di tonno e finocchi e da alici impanate e fritte.
Alla fine oltre alla torta pasqualina e la tortiera di ricotta, limone e cannella, un fresco gelo agrumato di mandarini e arance. Era cosparso da fiori di rosmarino e semi di melograno. In quel preciso momento gli Arabi erano con noi. I pastizzeddi di carne al cioccolato erano in bella mostra al centro del table à té. Kabila e Farah, sorridenti, dispensavano Kaab el ghzal, le cornes de Gazelles, pasticcini a forma di mezzaluna, ripieni di mandorle aromatizzati ai fiori d’arancio, ghoriba, i fiocchi di neve, Chelakia, i biscotti al miele e sesamo, anice, gomma arabica, Sellou, gli sfarinati di mandorle e semi di sesamo.
Seduta su ampi cuscini blu, sparsi sulle mattonelle screziate del Riad, nascosti al frastuono della Medina, Naira, la sorella più piccola dai grandi occhi neri, leggeva ad alta voce, davanti ai commensali: “Come sei diventato faraone? Finora nulla me l’ha impedito.” Antico proverbio berbero.